di Agota Kristof
traduzione Elisabetta Rasy
con Anna Paola Vellaccio
regia ed ambientazione Fabrizio Arcuri
cura Giulia Basel
foto di scena Roberta Verzella e Tiziano Ionta
grafica Antonio Stella
una produzione Florian Metateatro
si ringrazia il Teatro di Roma
Una stanza che gli spettatori sbirciano da una finestra. Avvolta dalle volute della nebbia e dal vento che le muove i capelli, la donna racconta la storia a se stessa. Tutto e' reale e simbolico allo stesso tempo le luci, i rumori, la voce che le fa eco che le rimbomba nella testa, mentre accetta ogni privazione, accetta di non muoversi più, di non sentire più, di non vedere più, fino a che non arriva la minaccia. Piuttosto la vita ma non la voce. Perdere la voce significa perdere la possibilità di esprimersi più di qualunque altro senso. Allo spettatore non resta che cadere lentamente dentro le maglie di questa tragedia che da favola pian piano svela il suo risvolto fino ad arrivare ad essere baratro, nera testimonianza di tanti soprusi di cui le nostre cronache sono piene. Sotto la superficie della scena che ci si apre dinnanzi (una Donna che attende l’arrivo del Marito nella loro casa) c’è qualcosa di invisibile ma minaccioso. Anche dal tono pacato della protagonista, del resto, emerge di tanto in tanto la sua vera condizione, che l’ha resa folle: è segregata in casa dal consorte, il solo ad avere la chiave dell’unico ascensore che conduce fuori dall’abitazione isolata e immersa in un bosco lontano dalla città. L’amore è anche volontà di possedere l’altro. Quando questo istinto va fuori controllo gli esiti sono nefasti, perché un essere umano non si riduce mai ad un solo ruolo, sarà sempre anche altro rispetto alla parte che riveste in un determinato rapporto sociale (la coppia, ad esempio) e quindi non potrà mai esser totalmente dominato dall’altro. E' una lotta che l’oppressore non può vincere, sembra dirci Kristóf, almeno sul piano dell’assoggettamento mentale: il desiderio di libertà è insopprimibile; la Donna, piegata, resa folle, scissa, conserva comunque la volontà di essere un individuo e non cede all’assimilazione. Potranno toglierle la vita, ma non si farà strappare la voce per gridare al mondo la sua condizione.
Ágota Kristóf,
nata nel 1935 a Csikvánd un villaggio dell’ Ungheria nel 1956, in seguito all'intervento dell'Armata Rossa per soffocare la rivolta popolare contro l'invasione sovietica, fugge con il marito e la figlia in Svizzera e si stabilisce a Neuchâtel, dove vivrà fino alla morte. Non perdonerà mai al marito la decisione di allora, presa per paura di essere arrestato dai sovietici, tanto che in una intervista dirà: “Due anni di galera in Urss erano probabilmente meglio di cinque anni di fabbrica in Svizzera”. Ma dirà anche “Bisogna continuare a scrivere. Anche quando non interessa a nessuno. Anche quando si ha l’impressione che non interesserà mai a nessuno”. Tra i suoi lavori più celebri, Trilogia della città di K. nei quali Ágota rappresenta le tragedie della guerra con una disperazione fredda e sorda, come se scrivesse attraverso gli occhi di un bambino che non giudica mai niente, ma che si limita a registrare quello che accade con spietata ingenuità.
così la critica :
“... e’ stupefacente l’analogia tra il testo che abbiamo letto e quanto ascoltiamo nella misura in cui ne è stupefacente la differenza – per la ricchezza e lancinante potenza dei toni e per gli effetti e suggestioni di luci. Il regista Fabrizio Arcuri e l’interprete Anna Paola Vellaccio avevano già lavorato insieme. L’accordo è misterioso, sono un tutt’uno. In un monologo, Nella pietra di Christa Wolf, Vellaccio aveva mantenuto un timbro vocale e ritmico tutto il tempo. Ora, che siamo in un altro Medioevo, nel Medioevo eterno, il tempo viene frantumato: la vera fiaba in quella nebbia è straniata; l’altra fiaba è invece ironica, ora irrisa, ora appassionata, ora urlata – un interminabile urlo doloroso: “La vita, se volete, ma non la voce!”. Franco Cordelli Il Corriere della Sera 19 ottobre 2017
“... resta profondamente impressa nell'iride degli occhi, l'incandescenza bianca della sagomata quarta parete che per un'ora divide il pubblico dello Spazio Diamante dalla messinscena che il regista Fabrizio Arcuri ha riservato a “La chiave dell'ascensore”, succinta pièce che Agora Kristof ha scritto nel 1977, ora data in consegna a Anna Paola Vellaccio per un a solo scisso tra apologo e diario reclusorio. La prima abbagliante sensazione è quella di un orizzonte boreale, di un panorama niveo e distopico infittito di nebbia, dove incombe di spalle una sagoma femminile provvista di lunga chioma bionda e abito candido, lattescente...Lo spettacolo s'avvantaggia molto d'un soggetto torturato ma liliale, inconsapevole. Merito di un impianto che da preraffaellita tende all'artificiale, all'alieno, all'androide. Con un contributo intenso dell'interprete, che ha in extremis una reazione furiosa, con toni da fantascienza allucinata e visionaria, senza smettere però d'essere umana.”
Rodolfo Di Giammarco La Repubblica.it – 26 novembre 2018
“... il testo della Kristóf viene proposto ai Teatri di Vita nell’interpretazione intensa e struggente di Anna Paola Vellaccio, allestimento e regia di Fabrizio Arcuri, Premio della critica 2010 e, nel 2011, Premio Ubu e Premio Hystrio alla regia... Tutta la pièce è giocata sull’intreccio di sonorità, luce e fisicità attorica. Musica e voce spesso si compenetrano, creando un’atmosfera di sospensione trasognata, inquieta e perturbante. In particolare, la vocalità di Anna Paola Vellaccio è di un’intensità che mette i brividi, vira nel giro di un istante dalla narrazione, alla cantilena dolente, al grido straziato, e ricalca con la voce il senso del racconto fino a punte onomatopeiche che sono pura poesia vocale. Colpisce nel segno anche la fisicità intensa e solipsistica della protagonista, che trasmette con potenza tutto il sentire di dolore dato dall’isolamento e dalla castrazione programmatica di ogni espressione del desiderio di evasione e libertà”.
Chiara Quinci www.gufetto.press 4 dicembre 2018