SADE : OPUS CONTRA NATURAM
Voyage en Italie
di e con
Enrico Frattaroli (autore libertino)
dall’opera del Marchese de Sade
con gli attori
Franco Mazzi
Anna Cianca
Galliano Mariani
le performer
Catia Castagna
Miriam
Abutori
il musicista
Enrico Venturini
tecnico all'argano e alle luci
Tibò Gilbert
prodotto da
NEROLUCE
FLORIAN TEATRO STABILE D'INNOVAZIONE
con il patrocinio dei
Servizi Culturali dell'Ambasciata di Francia in Italia
Napoli. Teatro Festival Italia, Real Albergo dei Poveri,
11-12-13 giugno, ore 21:00 (prima assoluta)
Padova. Festival Teatri delle Mura, Bastione Alicorno,
15 giugno, ore 22:30 (seconda tappa)
SADE : opus contra naturam è il lavoro conclusivo di un ciclo di cinque spettacoli che Enrico Frattaroli ha dedicato, dal 2002 al 2007, all’opera del Marchese de Sade. Il Voyage en Italie è la mise en voyage dell’ultima opera nelle città italiane visitate da Sade nei suoi viaggi reali o reimmaginate attraverso le avventure dei suoi personaggi libertini: un grand tour in luoghi singolari, tutti scelti con logica sadiana e deputati a declinare l’opus contra naturam in maniera unica e irripetibile.
Con il Voyage en Italie, Frattaroli si ostina a non lasciare muto un lavoro raro, anzi unico in Italia, in cui ha cercato inesorabilmente, come nessun altro prima, una lingua teatrale per «dire tutto», come Sade esige, al di là dei cliché di un personaggio conosciuto più per la leggenda che lo precede che per la scrittura di cui è autore, e che il termine sadismo non basta minimamente a contenere. Un lavoro in cui l’autore ha voluto, per principio, non vietarsi nulla, né del rigore erotico né dell’audacia filosofica di Sade, al fine di realizzare una rappresentazione in cui Filosofia ed Erotismo, Dissertazione e Orgia – reciprocamente e indissolubilmente implicate – fossero lo stesso strumento teatrale con cui Sade disseziona e analizza, attraverso la ragione e il desiderio, il «cuore umano».
crediti fotografici: Andrea Cravotta e Luciano Romano.
di
Enrico Frattaroli
con ANNA PAOLA VELLACCIO
PROGETTO OMBRE – PRIMO MOVIMENTO
OCCHI FELICI
Uno spettacolo di GIORGIO MARINI
dal racconto di Ingeborg Bachmann
traduzione Ippolito Pizzetti - edizioni Adelphi
con
Emanuele Carucci Viterbi
Elisabetta Piccolomini
Anna Paola Vellaccio
disegno luci Vincenzo Raponi
assistente alla regia Alessandra Felli
produzione Giulia Basel – Massimo Vellaccio
in collaborazione con
ATCL - Associazione Teatrale Comuni Lazio
con il sostegno di
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA’ CULTURALI
Direzione Generale per lo Spettacolo dal vivo
REGIONE ABRUZZO - Assessorato Promozione Culturale
REGIONE LAZIO
Assessorato alla Cultura, Spettacolo e Sport
CITTA’ DI PESCARA - Assessorato alla cultura
TEATRIAPERTI/COMUNE DI FORMELLO
Il progetto triennale “Ombre” nasce dall’incontro tra il regista Giorgio Marini ed il Florian-Teatro Stabile d’Innovazione. Attraverso un percorso unitario vengono affrontate tre diverse narrazioni di tre autrici europee contemporanee: Occhi felici di Ingeborg Bachmann, I gemelli di Fleur Jaeggy e I gioielli di Madame de… di Louise de Vilmorin. Gli spettacoli, in altri termini, rappresentano tre varianti rispetto ad un’unica e ipotetica “storia” i cui personaggi si declinano nelle “figure retoriche del discorso” dei testi, con spostamenti di attribuzione delle loro identità realizzati attraverso un gioco di travestimenti e rispecchiamenti continui che produce lo sgretolamento delle singolarità degli interpreti che agiscono in scena.
Nel caso specifico della Bachmann è opportuno rilevare innanzi tutto la sua origine mitteleuropea, quindi la temperie culturale che si riflette nella sua produzione letteraria, ed il ruolo della casa editrice che l’ha pubblicate per la prima volta in Italia, Adelphi, che ha inserito la portata della sua opera nel più ampio contesto della rivoluzione politico-culturale che l’editore ha inaugurato nella nostra penisola a partire dagli anni ‘50.
Il progetto “Ombre” segna il ritorno al teatro di prosa di Giorgio Marini, regista eclettico che, dopo aver debuttato nell’ambito del teatro sperimentale romano di fine anni '60, ha costantemente alternato la sua produzione tra la prosa e la lirica, lavorando per i maggiori festival internazionali da quello di Spoleto alla Biennale di Venezia.
Primo movimento del progetto “Ombre” è “Occhi felici” dall’omonimo racconto di Ingeborg Bachmann che affronta la storia di un anomalo triangolo amoroso vissuto attraverso la miopia della protagonista Miranda, miopia che si scopre essere il suo vero diaframma rispetto alla vita. Soprattutto rispetto all’uomo cui è legata, Josef, e alla sua amica più stretta Stasi: miopia che permette a Miranda di vedere o non vedere quello che lei vuole. Questa deformazione ottica produce un reciproco slittamento dei ruoli dei personaggi non solo nei confronti l’uno dell’altro, ma soprattutto di ognuno nei confronti di se stesso. Questi spostamenti generano le immagini doppie, come riflesse nello specchio, proprie dello spettacolo.
“Di fatto, Marini non trasforma il racconto in un copione ma in una doppia partitura, musicale e coreografica. (….) Vi sono immagini di un nitore cesellato fino allo spasimo, e vi sono i sincronici movimenti dei tre attori, perfetti, cioè flessibili, oppure inflessibili, come gli strumenti di un trio, soprano violoncello e piano: Emanuele Carucci Viterbi, Elisabetta Piccolomini, Anna Paola Vellaccio”. (Franco Cordelli).
“Giorgio Marini torna al teatro di prosa dopo un lungo “esilio” nella lirica, e ribadisce la propria sapienza di regista, inteso come intellettuale che attraverso gli attori, le immagini e la parola è in grado di restituirci pensiero ed emozioni di un’altra grande intellettuale, Ingeborg Bachmann.” (Gianfranco Capitta).
Lo spettacolo ha debuttato alla fine di marzo 2007 nella stagione del Teatro di Roma al Teatro India.
Uno dei 10 migliori spettacoli della stagione italiana 2006/2007
(Franco Cordelli, Corriere della Sera, 5 giugno 2007)
“Quel che mi attrae di Occhi Felici è che potrebbe essere un film perfetto, da realizzare ricreando una sorta di neo-Nouvelle Vague. D’altronde fu scritto proprio in quegli anni, verso la fine degli anni ‘50 e l’ inizio dei ‘60, e di quegli anni ha il carattere e, direi, l’asetticità. Quel non veder accadere nulla, quando invece accade praticamente tutto. L’ambito è quello di un minimalismo di indagine, effettuata intorno a piccoli episodi che significano molto di più di quello che in apparenza sembrano. L’altro aspetto determinante del racconto è il suo forte carattere visivo, dato dalla miopia della protagonista: il suo occhio che non vede, ma che perciò vede di più, che si traduce nella possibilità, da parte sua di un nuovo modo di percepire fatti qualsiasi della vita quotidiana. Quello che faccio non è un teatro psicologico, e nemmeno un teatro narrativo, e tuttavia uso tanto la psicologia quanto la narrativa nei miei spettacoli. C’è continuità tra testo e messa in scena. Un teatro sì visivo, ma molto legato alla parola, il movimento non è illustrativo della battuta, costituisce una partitura gestuale piuttosto indipendente che ha dei ritorni, dei leit-motif, dei grumi, dei giochi di ripetizione per cui certe volte c’è un visivo e un verbale che si sovrappongono ma in realtà non sono proprio illustrazioni l’uno dell’altro. Diciamo che è un teatro di movimento, che non potrei definire coreografico, ma che ha a che fare con questo linguaggio.
Lo spettatore più che vedere, percepisce. Per me la comprensione in senso stretto non è importante da un punto di vista narrativo. Quello che è importante è percepire globalmente..
E poi c’è la musica. La musica è determinante, anche se ce n’è poca, ci sono soprattutto rumori. La musica per me non è tanto la musica sullo spettacolo, ma è lo spettacolo stesso che è regolato da un discorso paramusicale.
In Occhi Felici c’è la mia memoria. Ogni volta che costruisco uno spettacolo, un oggetto rappresentativo, se la cosa è riuscita c’è un respiro significante molto più ampio della cosa in sé. Come nelle fiabe.” (Giorgio Marini)
PROGETTO OMBRE – SECONDO MOVIMENTO
I GEMELLI
Uno spettacolo di GIORGIO MARINI
dal racconto di Fleur Jaeggy edizioni Adelphi
con
Emanuele Carucci Viterbi
Elisabetta Piccolomini
Anna Paola Vellaccio
disegno luci Vincenzo Raponi
assistente alla regia Alessandra Felli
produzione Giulia Basel – Massimo Vellaccio
in collaborazione con
ATCL - Associazione Teatrale Comuni Lazio, col sostegno di MINISTERO PER I BENI e le ATTIVITÀ CULTURALI
REGIONE ABRUZZO - REGIONE LAZIO - CITTÀ DI PESCARA
Dopo il debutto del primo movimento –“Occhi felici”, andato in scena nel 2007 al Teatro India di Roma accolto da uno splendido riscontro di critica- Giorgio Marini presenta ora il secondo movimento di questa trilogia che, attraverso un percorso unitario, affronta tre diverse narrazioni di altrettante autrici europee contemporanee - Occhi felici di Ingeborg Bachmann, I gemelli di Fleur Jaeggy e I gioielli di Madame de … di Louise de Vilmorin - sulle quali il regista compie un’operazione drammaturgica trasformando i racconti in partiture sceniche. Interpreti di tutta la trilogia sono Emanuele Carucci Viterbi, Elisabetta Piccolomini, Anna Paola Vellaccio, sensibili e capaci nel portare in scena una complessa macchina registica; il disegno luci, chiave espressiva e cifra stilistica dell’intero progetto, è affidato a Vincenzo Raponi.
“I gemelli” racconta la storia di due fratelli che vivono in un villaggio senza nome e che si bastano fino alla morte, senza mai varcare altri confini e “altri luoghi”. Anche in questo caso siamo di fronte ad una doppia duplicità, da un lato quella gemellare dei due fratelli, dall’ altro la coppia di un pastore protestante e della moglie, rappresentati come scissione nevrotica di una stessa persona. Il villaggio è un non luogo di vecchi in cui i morti persistono nei vivi che potrebbero sembrare, a loro volta, fantasmi: la stessa identità dei due fratelli finirà per dissolversi nell'incertezza del finale.
I gemelli sono forse dei revenants, vampiri che ritornano nella propria casa; oppure degli estranei che s’introducono in una realtà da un altrove dimenticato, come dopo il risveglio da una morte vivente o da un’amnesia; o dall’ipnosi di un gioco di magia.
Giorgio Marini sceglie di far interpretare i fratelli Hans e Ruedi dalle due attrici mentre l’attore gioca sia una parte maschile che una femminile, ed affida alla scenografia un ruolo di primo piano: all’interno della scatola nera del primo movimento, è racchiusa una landa innevata abitata da personaggi che si rifanno ai tipi tedeschi documentati dalle fotografie di August Sander, dando una suggestione precisa allo spettatore.
E “I gemelli”, come già “Occhi felici” e come sarà per “I gioielli di Madame de…”, rappresenta una delle tre varianti di un’unica storia i cui personaggi si declinano nelle “figure retoriche del discorso” dei testi, con spostamenti di attribuzione delle loro identità, realizzati attraverso un gioco di travestimenti che produce lo sgretolamento delle singolarità degli “interpreti-attori” che agiscono in scena. La stessa scenografia del secondo movimento, nella sua luminosità, è il contraltare del buio dal quale emergeva la scena di “Occhi felici”.
Il progetto triennale “Ombre” nasce dall’incontro del regista Giorgio Marini con il Florian Teatro Stabile d’Innovazione e segna il suo ritorno al teatro di prosa dopo anni dedicati al teatro lirico.
Marini, infatti, debutta nell’ambito del teatro sperimentale romano alla fine degli anni ’60, e da lì la sua produzione si è costantemente alternata tra prosa e lirica per i maggiori Festival internazionali, da quello di Spoleto alla Biennale di Venezia. Proprio alla scrittura di Fleur Jaeggy si deve un suo memorabile spettacolo “L’ Angelo Custode” del 1972.
“La musa di Fleur Jaeggy è il riserbo. Nella letteratura italiana, e forse europea di oggi, nessuno possiede la sua implacabile discrezione, la sua stoica accettazione della necessità, la sua caparbia durezza” (Pietro Citati, La Repubblica)
“La paura del cielo, paragonabile ai feroci, ‘tableaux parisiens’ di Baudelaire, raccoglie scorci di vite suburbane, sepolte in una banalità quotidiana e collettiva dove fermentano e all’improvviso scoppiano l’odio, la follia e l’omicidio” (Marc Fumaroli, Le Figaro)
Dopo aver affrontato in Occhi felici un anomalo triangolo amoroso filtrato attraverso la miopia della protagonista, ne I gemelli assistiamo alla storia di due fratelli di un villaggio senza nome che si bastano fino alla morte, senza mai varcare i confini di altri luoghi. Anche in questo caso e in modo più evidente siamo di fronte ad una doppia duplicità, da un lato quella gemellare dei due fratelli, dall’altro la coppia di un pastore protestante e di sua moglie rappresentati come scissione nevrotica di una stessa persona. Nel racconto il villaggio è un non luogo di vecchi in cui i morti persistono nei vivi che potrebbero sembrare, a loro volta, fantasmi: la stessa identità dei due fratelli finirà per dissolversi nell'incertezza del finale.
Nella presentazione de I beati anni del castigo, Iosif Brodskij definisce così lo stile narrativo della Jaeggy: “Si ha l’impressione che sia stato scritto con una penna affilata, affilata come una lama, con la punta di quella penna, di quella lama”.
Da un punto di vista visivo l’allestimento presenta una landa innevata, con due grandi sedie-albero poste al centro dello spazio, da cui emergono gli oggetti utilizzati nelle azioni sceniche.
I costumi, che in Occhi Felici sono ispirati a Chanel in omaggio ai primi anni sessanta del Novecento e all’episodio Il lavoro di Luchino Visconti, ne I Gemelli si riferiscono alla produzione fotografica di August Sander relativa al progetto di documentazione delle tipologie sociali tedesche che il fotografo ha avviato a partire dagli anni ’20 del secolo scorso.
Fleur Jaeggy
Nata a Zurigo, ma di madrelingua italiana ha vissuto la sua infanzia e la sua adolescenza fra alcuni collegi svizzeri e Roma. . I suoi esordi letterari sono stati fortemente segnati dalla vicinanza con la grande scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann, di cui cui Fleur Jaeggy è stata amica da giovanissima e che ha frequentato fino alla sua precoce scomparsa. Dal 1968 vive a Milano. Il suo primo romanzo, Il dito in bocca, è stato pubblicato in quello stesso anno presso l’editore Adelphi; sempre da Adelphi sono poi usciti: L’angelo custode (1971), Le statue d’acqua (1980), I beati anni del castigo (1989), i racconti La paura del cielo (1994) e il romanzo Proleterka (2002). Fra i numerosi riconoscimenti ricevuti,vanno ricordati il premio Bagutta (1990) per I beati anni del castigo e il premio Viareggio (2002) per Proleterka.
Alla scrittura narrativa Fleur Jaeggy alterna traduzioni (sue sono le versioni italiane di Vite immaginarie di Marcel Schwob e de Gli ultimi giorni di Immanuel Kant di Thomas De Quincey) e testi critici su Schwob, De Quincey, Keats e Walser.
Del suo romanzo d’esordio, Il dito in bocca, la Bachmanm ha scritto: “È un libro stravagante e insolito, fra l’altro per la superba trascuranza delle correnti letterarie. L’autrice ha l’invidiabile primo sguardo per le persone e le cose, c’è in lei un insieme di distratta leggerezza e di saggezza autoritaria: da queste capacità contraddittorie nascono dialoghi di una diabolica intelligenza e descrizioni di una semplicità disarmante”. Molte sono le affinità fra le due scrittrici, a cominciare dall’oscillazione fra l’Italia e il rispettivo paese natale (Svizzera e Austria) che ha segnato la loro biografia e la loro stessa sensibilità. Altri autori di cui si possono riconoscere le tracce nell’opera della Jaeggy sono Robert Walser e Thomas Bernhardt, senza dimenticare l’influsso che ha esercitato su di lei la letteratura mistica e sapienziale d’Occidente e d’Oriente, in particolare Meister Eckhardt e Chuang-Tzu.
I suoi libri, pubblicati in Italia da Adelphi, sono tradotti in 20 paesi e 20 lingue.
GIULIO CESARE E’ MORTO.
Testo, regia e interpretazione di FABIO SANVITALE
con le voci di
Susanna Costaglione, Domenico Galasso,
Umberto Marchesani,
Edoardo Oliva, Massimo Vellaccio
consulenza scientifica
Valerio Massimo Manfredi
assistenza tecnica Tibo Gilbert
registrazioni e missaggio audio Marco Marrone
produzione Giulia Basel
Su Cesare hanno scritto in tanti: saggi come quello di Luciano Canfora, poi ovviamente Shakespeare; anche Thornton Wilder, che con “Idi di marzo” creò un bellissimo -quanto non abbastanza conosciuto- romanzo su quei giorni.
Sono anni che rifletto, partendo da tutto questo, intorno a Cesare. E alla fine ho asciugato, condensato questa lunga ricerca in un lavoro che mi vede solo sul palcoscenico. Non è tanto il raccontare una storia che conosciamo. È molto di più. È parlare delle nostre vite. La storia c’è tutta, ma ho voluto andare oltre e cercare il senso di quelle esistenze – e delle nostre. Cicerone, Bruto, Cassio, Casca, Cleopatra, Cesare: ad ognuno do voce e pensieri. Le parole, i drammi, la vita quotidiana e i desideri dei protagonisti di quei mesi a cavallo tra il 45 e il 44 a.c. li ho raccolti in ottanta minuti. Una ricostruzione delle loro vite, certo. Alla quale ho aggiunto l’indagine svolta dal Colonnello Luciano Garofano del Ris di Parma sull’attendibilità della tesi storica che vuole che Cesare, quel giorno, sia andato volontariamente incontro alla morte. Due ricostruzioni, insomma: una della vita, una della morte. Entrambe appassionanti, entrambe verosimili. Cosa sia davvero successo quel giorno, chi siano davvero stati i protagonisti di quella storia, non lo sapremo mai. È passato troppo tempo. Ma trovo straordinario avere la possibilità di approfondire i libri di storia, per dire quello che i manuali non possono dire.
Cercare nella mente e nelle emozioni di Cesare, nei suoi ultimi sette mesi. Gli ultimi mesi di un Dio. E scoprire un uomo
che, per la prima volta nella sua vita, proprio mentre è finalmente padrone del mondo, inizia a farsi le domande che non si è mai posto. Cos’è l’amore? Gli dei esistono? Dove vanno gli uomini?
Che senso ha la libertà? Qual è il senso profondo della responsabilità? Perché il Re del Mondo fa tutte queste domande ad un uomo che vive da anni isolato da tutti, a Capri: e che non gli
risponde mai? Intorno a lui, Bruto, Cassio, iniziano a pianificare quello che accadrà alle Idi di Marzo. E poi le parole del suo medico, Sostene, di Cicerone, di Cleopatra. Cesare ha davvero
cercato la morte, quella mattina di 2052 anni fa? Che motivo aveva? Quanto erano importanti onore e dignità per lui? Qual è il mistero della vita e della morte di quest’uomo? Siamo così diversi
dagli uomini e dalle donne di quella mattina di marzo a Roma? Perché le domande sono ancora le stesse? Possiamo davvero conoscere chi ci è accanto o davvero vince l’impossibilità della
conoscenza? Cercare nella mente e nell’anima di Cesare, in gioco di vero e di falso, in un mondo così vero e così falso, nell’anno 2009
d.c. Fabio Sanvitale
vita, morte e miracoli di un attore e uno scrittore
uno spettacolo nel centenario della nascita 1910-2010
testo, regia e interpretazione di Fabio Sanvitale
DEBUTTO: 5 MARZO 2010, FLORIAN ESPACE, PESCARA
Ennio Flaiano. Romanziere? Critico teatrale? Sceneggiatore? O, semplicemente, se stesso. Un uomo nato in corso Manthonè con una rarissima capacità: quella di investire il suo talento in troppe direzioni. E di non essere probabilmente mai soddisfatto di nessuna. E, anche, di lasciarci una lunga serie di folgoranti riflessioni sulla vita, sul mondo, su noi: perfettamente valide anche 37 anni dopo la sua morte. Non semplici battute, ma squarci di conoscenza, distillati di pensiero, profondità impensabili che si aprono di colpo, come un occhio che s'apre e si chiude, per un attimo. Bisogna esser veloci ad ascoltare Flaiano, a guardare dentro le parole.
Questo spettacolo è uno squarcio sugli anni Sessanta, sull'Italia del Boom Economico, e sulle mille contraddizioni di quell'epoca vicina; sulla coincidenza, ironica, che le riflessioni di Flaiano sulla sua epoca sono validissime ancor oggi. L'Italia è molto diversa, l'Italia è molto uguale.
Il rapporto tra cittadini e Potere, tra uomo e donna, la religione, il cambiamento dei costumi, la stupidità dilagante: a Flaiano non sfugge nulla. Tutto osserva, da tutto è distaccato.
E capire l'Italia degli anni Sessanta è un modo formidabile per capire l'Italia dei due decenni successivi, le rivolte, le nuove mode, le modificazioni della società. Ennio Flaiano ha fotografato una società in cambiamento.
Questo spettacolo, che si avvale di foto e della voce originale di Flaiano, ne celebra l'intelligenza e quella infinita, infinita ironia che gli consentivano di capire il mondo, di leggerlo in controluce. Un lavoro lieve e pensato al tempo stesso; ironico e profondo, malinconico e allegro come Flaiano era e sapeva essere. Che ne restituisce le parole, il pensiero, l'avventura personale tra cinema e letteratura, intrecciando la Pescara di ieri con quella di oggi; la Roma di ieri col mondo di oggi.
L’idea è quella di intrecciare la vita di Flaiano con quella del narratore che lo racconta in scena, Fabio Sanvitale, autoproclamatosi “l’ultimo dei Flaianei”, in un tentativo, lieve e divertito, che dura tutto lo spettacolo, di dimostrare di esserne l’unico, vero erede. Questo incrocio di vite e di storie è l’anima dello spettacolo: a dimostrazione di come, anche nel terzo millennio, abbiamo assolutamente bisogno di uno sguardo come quello che Flaiano sapeva avere.
IL CASO FENAROLI
tutto quello che vedi può essere falso
testo, regia, interpretazione FABIO SANVITALE
consulenza scientifica Enrico De Grossi
assistenza tecnica Tibo Gilbert
Oggi è l'11 settembre 1958 ed è giovedì. Siamo in via Monaci 21, alle spalle di piazza Bologna, Roma. Maria Teresa Viti arriva alle 8,30, come ogni mattina, no? E' a servizio dalla signora Martirano; sì, la Martirano, quella che ha sposato il geometra Fenaroli, quella del primo piano. Suona, ma lei non risponde. Niente. Strano… allora chiama il fratello, Luigi Martirano. Lui arriva alle 9.20 e per un'ora non sa cosa fare. Quando si decidono a entrare, la Martirano è in cucina. A terra, la testa in una pozza di sangue. Strangolata, si vede subito. Guardate com'è composto il cadavere; significa che non c'è stata colluttazione, che non ha quasi reagito. Strano. La porta era chiusa, a doppia mandata. Dunque, l'assassino è ancora in giro ed ha le chiavi.
Pacchetti vuoti di sigarette in salotto ed in camera da letto. Nel portacenere del salotto c’è la cicca di una sigaretta col filtro che non è della vittima.
La camera da letto della Martirano è un gran casino e sono sparpagliate qua e là delle carte. Tra cui spiccano la bellezza di ben tredici polizze assicurative. Sì, ma è un finto furto, manca un milione, dei gioielli; e hanno lasciato lì un rotolo da 400.000 lire.
Mi colpisce il fatto che sia stata uccisa in cucina. Perché proprio lì? Il telefono, in corridoio, è al suo posto. Ma nessuno può rispondere allo 06-242703.
Inizia così uno dei più straordinari e misteriosi casi giudiziari italiani. Nei quartieri-bene i delitti, si sa, non possono avvenire; il benessere è come una difesa dal Male. E invece…
C’è l’ansia di rinnovamento, il potere del denaro, la faccia oscura della modernità, un killer che vola da Milano a Roma, un mandante, il primo pentito della storia italiana, l’ombra dei servizi segreti e una Tangentopoli anni Cinquanta… C'è l’ aereo, auto velocissima, fabbrica di microfilm, telefono, America. Sì, è l'America questa, l'America vista al cinema, ma stavolta ,per la prima volta, esce dallo schermo bianco e suona al citofono. Via Monaci 21, Fenaroli. Quello che accade dopo è un mistero che dura da mezzo secolo. E che, unendo il teatro e la cronaca nera, proverò a raccontarvi guardando negli occhi i fatti e i loro protagonisti. Alla ricerca degli uomini e delle emozioni. Per capire il presente.
Fabio Sanvitale
crediti fotografici: FRANCESCA PARAGUAI